Karmen Pedaru: sono sempre stata brava a mascherare le emozioni
Oggi i pixel della macchina fotografica si spremono le meningi con piccole scintille, ma comunque non riescono a catturare tutta quanta la bellezza. Ben inteso: l’immagine che restituiscono è perfetta, lo sfondo bianco risucchia tutti nella sua magia bidimensionale, le luci dello studio catturano i riflessi di una Parigi sotto la neve e la mano di Katja Rahlwes sullo scatto è ispirata e sicura. Ma il passato, quello che la bellezza si porta dietro, il suo lento rotolare fino all’approdo di oggi in questa sala di posa in rue Moret, la macchina fotografica non lo vede. Magari lo intuisce. Lo cerca. Tenta di acciuffarlo con una raffica di click. Ma quella dimensione temporale sfugge. S’aggrappa al trenino delle memorie e torna a inabissarsi nelle profondità. Lascia piuttosto che sia la top model a sbrigare tutto il lavoro al suo posto.
Karmen Pedaru, a ventidue anni volto prediletto, tra gli altri, di Gucci e Michael Kors, appoggia così la mano destra sul fianco imprimendo il suo sigillo sullo schermo. La Karmen fotografata, quella che appare al computer, è immobile, incorruttibile, splendente, iconica. La Karmen in carne ed ossa, poco distante e come in competizione con se stessa, incredibilmente riesce a fare altrettanto: mai un’incertezza, lo sguardo che per un istante si spegne portato via da un pensiero. Raro esempio di fascino concreto, reale, che vince sulla sua rappresentazione.
«Questo lavoro non lo puoi imparare», dirà più tardi, bevendo una “Diet Coke” e arrotolando nervosamente i filamenti della sua enorme giacca bianca di pelo. «O ti è stato instillato dalla vita, o non c’è nessuno che possa insegnartelo».
Karmen non è un nome comune in Estonia, credo.
No. L’ha scelto mia madre, in onore dell’opera di Bizet.
La protagonista del libretto è una zingara. È cresciuta libera e selvaggia anche lei?
Solo in parte. Mia nonna Hele-Mall lavorava in una grande fattoria, e quando andavo da lei passavo il tempo tra gli animali, mungevo le mucche, anche se più spesso le inseguivo per tormentarle. Non avendo fratelli e sorelle, quelli erano i miei giochi solitari.
I suoi che lavoro facevano?
Di loro non parlo, è una storia che mi rattrista. L’unica cosa che mi va di dire è che non sono cresciuta con loro, ma con l’altra mia nonna, che si chiama Elo-Mai.
Sembra il nome di una fata.
E invece faceva l’insegnante di storia.
Severa?
Abbastanza. Ma se oggi ho una buona educazione lo devo a lei. Era anche la mia professoressa alle superiori: a casa mi faceva studiare da morire.
In più non poteva bigiare a scuola, raccontare bugie, prendere delle note disciplinari. Davvero in trappola.
E non potevo neppure falsificare le firme sui brutti voti. Alla fine mi scopriva. Altra cosa pesante, mi obbligava ad andare a teatro ogni settimana: credo di aver visto tutti i balletti e i drammi della tradizione estone...